Il Vangelo secondo gli zingari
di Fabrizio Ravelli
Se questo è un prete. Qualcuno potrebbe anche chiederselo. Porta un cappello nero che si calca in testa fin da quando si alza dal letto, per uscire dalla roulotte e lavarsi all’aperto. Anche oggi che piove, qui nel piccolo campo di Pozzuolo dove è «in visita, a trovare gli amici». Ha due baffetti bianchi sottili alla Clark Gable, e le sopracciglia cespugliose fanno ombra agli occhi scaltri.
«Cosa volete farmi dire? Perché io sono più furbo di voi, e dico quello che voglio». Voi giornalisti, ma anche voi gagi, voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case.
Don Mario Riboldi ha quasi settantanove anni – magro come un violinista gitano, vigoroso come un domatore di cavalli – ed era un ragazzo di Biassono quando entrò in seminario. Si fece prete, e ancora mancava qualcosa alla sua vita: «Ero appena prete, vicino a Magenta, quando ho visto questo gruppo di sinti. E ho pensato: chi porta il Vangelo a questa gente? Ed eccomi qui, dopo cinquantacinque anni».
E quindi, «sarei anche brianzolo, ma faccio il nomade con gli zingari». Da quando si fece zingaro, prete-zingaro: «Da quando mi sono messo in cammino».
Ci sono molti preti in Italia che si occupano di zingari, «gli ultimi degli ultimi», che hanno imparato a conoscerli nel bene e nel male. Che ci sono sempre quando le ruspe spianano baracche, e bisogna trovare un letto per donne e bambini. Che battagliano con sindaci e prefetti. Che trattano con scuole e ospedali. Che si prendono gli insulti dei gagi, perché gli zingari nessuno li vuole. Ma ci sono poi pochi preti, in Italia, e nessuno in altri paesi d’Europa, che si fanno zingari. Nel senso che vanno a vivere fra loro, con loro. Che dormono nelle roulotte o nelle baracche. Che sanno chi nasce e chi muore, chi va in galera e chi si innamora, chi trova lavoro e chi si ammala.
Don Mario sono cinquantacinque anni che fa questa vita. Casa sua è il campo rom di Brugherio, uno spiazzo di ghiaia sotto la tangenziale. Ma è sempre «in cammino», conosce tutti e tutti lo conoscono nel mondo dei gitani d’Italia.
Adesso è qui, nel piccolo campo alle porte di Udine, con il suo allievo-scudiero don Massimo
Mostioli, un ragazzone pavese con gli occhi azzurrissimi e i piedi scalzi nei sandali, che lo
accompagna e intanto studia la lingua degli zingari. Domani saranno di nuovo per strada, verso la Spagna. Dentro al vecchio camper don Massimo fa il caffè. E don Mario fa il conto di quanti sono i preti-zingari come loro in Italia. Non ci vuole molto, sono sette.
«A Verona don Francesco Cipriani, e a Bologna frate Flavio, un cappuccino. A Pisa c’è Agostino Rota Martir, un saveriano che vive con dei korakhané bosniaci, musulmani. Qui a Udine don Federico Schiavon. C’era don Renato Rosso, che venne con me in Friuli nel ‘72 e adesso è in Bangladesh, con i nomadi che lì sono decine di milioni. Poi ci sono le Piccole Sorelle di Gesù che stanno a Crotone, e le Luigine a Torino, due sorelle suore». E anche due sacerdoti rom: don Osvaldo Morelli che è viceparroco a Nocelleto di Carinola, provincia di Caserta, e frate Pasquale Barbetta.
Ma loro non vivono nei campi nomadi, per ora almeno.
Dietro di loro c’è un settore organizzato della Chiesa, l’UNPReS (Unione nazionale pastorale rom e sinti), ci sono pubblicazioni e convegni, c’è l’arcivescovo Agostino Marchetto segretario del Pontificio consiglio per la pastorale dei migranti e degli itineranti. Ma non si viene mandati o comandati a vivere da zingari, quella è una scelta personale. Che deve essere autorizzata dal vescovo.
Quello che diede il permesso a don Mario si chiamava Giovanbattista Montini, e oltre a essere un amico di gioventù era arcivescovo di Milano, la diocesi più grande: «Poi lui venne fatto Papa, e io dovetti lottare con il suo successore Colombo per poter continuare», racconta. Don Mario è abbastanza vecchio da poter chiamare «gran bravo ragazzo» l’attuale arcivescovo Dionigi Tettamanzi, e da aver rifiutato un posto in Vaticano: «Non potrei vivere dietro una scrivania».
E poi si sente davvero zingaro, nel cuore e non solo nei panni. Ride, beffardo: «Io non ho mai
lavorato, ho sempre fatto lo zingaro libero». Si mettono in cammino per evangelizzare, questi pretizingari.
Ma non è il conto delle conversioni, o delle vocazioni, a pesare. Il loro mestiere è mettersi
dalla parte di quella gente ai margini, di quella strana gente odiata e malvista e malsopportata, e condividerne l’esistenza. Strada facendo capiscono molte cose, da alcune sono affascinati: «Il nomadismo è una grande ricchezza, che però l’attuale civiltà cerca di eliminare, per tenere tutto sotto controllo». Se la gente cosiddetta normale diffida degli zingari, loro hanno imparato a diffidare della gente. Don Mario lo dice così: «Qualsiasi cosa pensi l’opinione pubblica degli zingari, a me interessa poco. A me interessano loro, i gitani».
Dove vive, nel campo di Brugherio, dice messa in una roulotte, e in un’altra abita. Per l’acqua c’è la fontanella, e per scaldarsi una stufetta. Nella grande città ha messo piede di recente per portare i «suoi» zingari a pregare in Sant’Ambrogio. Ma erano anni che non ci entrava: «Mi ricordo di quando, un diciott’anni fa, stavo a Baggio con una famiglia che non voleva entrare nel campo autorizzato. Dicevano: non vogliamo che i nostri bambini diventino ladri. Beh, gli fecero una multa di ottocentomila lire. E io da allora a Milano non ci vado. Me ne sto nei campi, o in giro». Ha conosciuto tutti, e quando arriva lui è una festa affettuosa. «Questi zingari sloveni li ho conosciuti a Linate nel ‘56. Coi bosniaci ero accampato, e insegnavo a leggere il Corano. Qualcuno s’era convinto che mi fossi fatto musulmano».
Il suo mestiere è evangelizzare. «Quando predico, prendo in mano la Bibbia e leggiamo. Io imparo qualcosa, loro imparano qualcosa, e con la parola di Dio cerchiamo di camminare su questa strada».
Non è problema di credere o non credere: «La loro vera povertà, per me, è che non conoscono il Dio in cui credono». Ma c’è più cristianesimo nella vita zingara, dice don Mario, che in quella dei gagi: «A Milano la media dei figli per ogni donna è meno di uno. E allora dove va a finire il cristianesimo? Negli zingari c’è un senso di naturalezza della vita, e questo è cristiano. Dicono:
come Dio vuole. Il milanese anche cristiano pensa spesso solo al lavoro, a come avere di più, a come arricchire. Ogni zingaro è libero, e il camminare insieme sta nella sua cultura».
Lui sta con loro, e cammina con loro. Nemmeno si sente di dover fare da ponte fra due mondi, o quel che adesso si dice mediatore culturale: «Io quello non lo so fare, non so fare due mestieri. Io mi sono chiuso fra di loro. Don Mario è uno zingaro in più». Rimpiange di non stare più in giro come una volta. Dice: «Mi sono fatto troppo prete, da quando vado a caccia di religiosi zingari».
Gran parte del suo lavoro di questi anni è rintracciare vocazioni e santità nella storia zingara, che non ha tradizioni scritte. Ha raccolto documenti sul primo santo zingaro, Zeffirino. Si chiamava Ceferino Jiménez Malla, detto “El Pelé”, era uno zingaro spagnolo commerciante di cavalli: «Era un uomo molto buono, e questo l’ha rovinato. Prese le difese di un prete, e morì con lui per la sua bontà». Fucilato il 9 agosto del 1936.
Ora sta scrivendo la vita di Emilia Fernandez Rodriguez, zingara in via di beatificazione. Raccoglie documenti sul primo prete degli zingari in Italia: «Del 1500, un salernitano detto “il litterato”, sacerdote a Roma». O su Karl Jaja Sattler, predicatore rom morto ad Auschwitz, che tradusse il Vangelo di Giovanni in lingua gitana. Don Mario, storico della religiosità zingara, «questo popolo di furbi, costretti dalla necessità a dire e non dire. Non mentiva forse anche Abramo, per salvarsi?».
Più che emarginati, dice, «marginali». Ladri? «A volte, e a volte no. I gagi mi chiedono: perché non gli dici di non rubare? Già, perché rubano a voi. Con la maggioranza che agli zingari dice: noi siamo noi, e voi non siete niente. Si vive, si sbaglia, si pecca. È l’umanità. E il rom dovrà farsi da sé, come ci riesce. Diamoci da fare noi. Noi zingari».
E a pochi chilometri da qui, dal campo di Pozzuolo dov’è di passaggio don Mario, c’è un altro dei preti-zingari. Federico Schiavon, un salesiano cinquantenne che da sette anni vive al Villaggio Metallico di Udine, il campo di via dei Sei Busi: «Lo chiamano Villaggio Metallico perché c’erano le baracche di metallo costruite dagli inglesi alla fine dell’ultima guerra. Una di quelle rimaste la uso come chiesa». Ci vivono centocinquanta zingari, e sono settecento in tutta la provincia. Gli sloveni sono discendenti di quelli liberati dal campo di concentramento fascista di Gonars, qui vicino. Poi arrivarono molti croati.
Don Federico dice che la sua scelta di vivere con loro è stata, in qualche modo, inevitabile:
«Frequentavo il campo, ma mi sono reso conto che venire qui di tanto in tanto significava arrivare come padrone e non come ospite. Ho avuto il permesso del vescovo. E poi ho chiesto anche a loro il permesso di vivere nel campo. Mi sono trovato una roulotte». Da sette anni, ogni mattina si sveglia lì. Lavarsi, pulire, pregare, organizzare la giornata: «All’inizio mi cucinavo da solo. Poi hanno cominciato a venire, a portarmi qualcosa, a invitarmi a mangiare con loro».
La sua vita è immersa in quella del campo: «Preghi un salmo, e le antifone sono i rumori dei
bambini che giocano, le donne che ridono, il marito che torna ubriaco». Primo, condividere, «e se ne esce un discorso religioso bene, se no è lo stesso». Come don Mario, anche don Federico comincia a prendere la vita dal senso zingaro: «Ognuno si porta dietro la sua storia, però vivendo con loro qualcosa cambia. Impari a non essere schiavo del tempo, ad apprezzare la libertà dei rapporti. La mia formazione era fatta di impegni, progetti, tempi segnati. Arrivo lì, e tutto mi viene buttato in aria. Fai fatica, ma vedi anche che il nuovo modo ti serve. È la vita la cosa più importante».
Dentro una famiglia: «Qui non sei il prete che deve ricevere rispetto in quanto prete. Sei un uomo come gli altri, e il rispetto te lo devi guadagnare. Condividi le cose belle e quelle meno belle. Le nascite, le morti, le feste quando uno esce dalla galera. Nessuno, da fuori, pensa mai che in campo c’è chi piange o ride, chi si innamora o sogna. Se sto via pochi giorni, quando torno devo recuperare, e farmi raccontare quello che è successo. Sono uno di famiglia: è stata una scommessa per me, ma lo è stata anche per loro». Per lui, è stata una scommessa anche tenere relazioni con quelli di fuori: «Provo a fare da ponte fra gli zingari e la gente friulana. Con le cose pratiche: il lavoro, le visite mediche, la burocrazia. E contro i pregiudizi». Finisce sempre così: «Che i friulani mi dicono: abbiamo capito, tu sei uno a posto. Ma loro no». Lui che vede «la fotografia dall’interno»: «Si colgono tante cose. Molti del campo lavorano regolarmente, anche se partono sempre svantaggiati fin da quando dicono il proprio cognome. Si parla solo degli zingari che rubano. Rubano anche dei friulani, ma nessuno dice che i friulani rubano».
O gli zingari che rapiscono i bambini: «Me lo dicevano quando ero piccolo, a San Donà di Piave. Ho visto una ricerca: non c’è un solo caso negli archivi delle questure d’Italia». Anche gli zingari dicono che i gagi portano via i bambini: «Quando si pensa che non abbiano condizioni igieniche adeguate. Ma senza aiutare le famiglie a migliorare». Cose che un prete-zingaro capisce: «E a volte mi prende la rabbia, a vedere come gli zingari sono trattati. Sa, una volta nessuno dei nostri vecchi avrebbe rubato al supermercato. E adesso, invece». Cose che don Federico comincia a pensare vivendo da zingaro, «adesso che è come se fossi di loro proprietà».
in “la Repubblica” del 13 aprile 2008